Eremo di Camaldoli
Questa, vi giuro sulla testa dei miei figli, è una storia realmente accaduta che ancora mi da i brividi e spesso mi sveglio sudato ripensandoci. E non si tratta di polluzioni notturne. Mandate a letto i bambini. E non lasciateli ai nonni. Poi capirete.
Era una giornata di fine estate e un amico che non sentivo da tanto mi chiamò al telefono: «Vuoi venire con me all’eremo di Camaldoli stanotte? Ho comprato un nuovo obiettivo per la macchina fotografica e mi piacerebbe provarlo in cima ad un monte dove non ci sono luci che disturbano. Poi potremmo rimanere a dormire lì e il giorno dopo farci una camminata». Non mi fregava granché del suo nuovo obiettivo però l’idea di campeggiare nel bosco e la camminata del giorno seguente mi stimolavano e poi era tempo che non ci vedevamo, per cui accettai.
Arrivammo all’eremo verso l’imbrunire e decidemmo di lasciare la macchina e proseguire a piedi verso Prato alla Penna, una spianata isolata circondata da una fitta faggeta in cima al passo. Montammo la tenda ai bordi del bosco e il mio amico iniziò ad armeggiare con il suo kit fotografico.
Io mi allontanai un poco e mi godetti il silenzio di quella radura e i fulvi colori dell’imbrunire. Mi lasciai trasportare dalla brezza e congelai quell’istante bucolico.
Quando tornai vidi un’altra tenda non lontano dalla nostra e il mio amico che parlava con un anziano signore e un bambino. Mi fece strano perché ero stato via pochi minuti e sembrava che la tenda fosse lì da tempo. Impossibile non averla notata prima e impossibile averla montata in cosi poco tempo. Comunque non diedi troppa importanza e mi diressi verso i due avventori. Quando arrivai il signore anziano smise di parlare, fece un cenno col capo in segno di saluto e cinse a sé il bambino. Poi lo spinse verso la tenda e tutti e due entrarono. Non feci in tempo a vedere il volto del bambino, solo una testa di soffici boccoli.
Il mio amico intanto era tornato ad occuparsi dei suoi strumenti. Chiesi delucidazioni sui vicini e mi disse che si trattava di un nonno che portava il nipote a vedere le stelle e dormire nel bosco ed era contento della nostra presenza così sarebbe sentito più tranquillo.
Pensai: che figo questo nonno, ganzo. Mio nonno l’unico posto figo in cui mi aveva portato era il Maneggio di Pipon ma non era stata una grande esperienza: eravamo rimasti nella stalla per tutto il tempo e l’unica cosa che ricordavo erano i culi sudati dei cavalli e un gran puzzo di merda.
Scese la notte e il cielo iniziò a brillare. C’era un silenzio surreale rotto dal passaggio di qualche auto in lontananza. Visto che il mio amico non toglieva le mani dal suo aggeggio, manco fosse una topa calda, decisi di farmi una canna. Una cosa che notai era che nonno e nipote non erano ancora usciti dalla tenda e sembrava stessero già dormendo perché non si udiva alcuna parola o movimento. Strano venire fin quassù per vedere le stelle e poi non godersi il panorama. Pensai che involontariamente si fossero addormentati e continuai a tirare il mio cannolo al cioccolato. Che sballo. Il firmamento era impressionante e l’effluvio della sigaretta amplificava le sensazioni. Disegnavo forme geometriche col pensiero collegando le stelle e pensavo agli acidi che mi ero calato in gioventù. Mi ricordai di quella volta che davo pacche al coppino del guidatore ogni volta che incrociavamo un lampione perché la luce era troppo forte. Finì che mi caricarono su un autobus e venni malmenato dal conducente.
Ero assorto nei ricordi quando rinvenni. Attorno era scesa un’oscurità inquietante. Solo allora mi resi conto che non sentivo più la presenza del mio amico. Mi guardai attorno ma non riuscivo a scorgere nessuna sagoma e soprattutto non udivo rumore. Mi alzai stordito dal giaciglio d’erba nel quale mi ero assopito e feci il giro della tenda. Niente. Addentrarsi nel bosco non mi stimolava così iniziai a chiamare a voce crescente l’amico. Niente. La tenda del nonno era sempre buia a e silente. Poi vidi un flash provenire dal fitto bosco.
«Sto coglione» pensai. Mi diressi verso il punto in cui avevo visto la luce, un po’ come John Belushi, e decisi di assestare una pacca al coppino del mio amico tanto per restare in tema e anche per il giramento di palle che mi stava procurando.
Lo chiamai perché non vedevo più nulla ma nessuno rispose. Eppure ero nella direzione giusta ma la vegetazione era talmente fitta che il chiarore delle stelle non penetrava.
«Dove sei?» udivo il crepitio di foglie secche e immaginai che volesse farmi uno scherzo e prendersi giuoco del mio debole cuore. «Coglione, vieni fuori. Hai quasi 40 anni, non ti senti un po’ troppo cresciutello per sto genere di cose?». Sentii come un alito caldo e putrescente sul collo e mi girai di scatto. Non vidi nulla ma, dallo scrocchiare di foglie e rami secchi potevo percepire che qualcuno si stava allontanando in fretta. Rimasi immobile nauseato dall’odore. Poi mi sentii chiamare. Il mio amico si sbracciava dalla tenda.
Arrivai trafelato. «Ma che diavolo ti salta in testa, begli scherzi». dissi.
«Come?»
«See vabbé, vaffanculo te e la tua cazzo di macchina fotografica. Sono sceso all’eremo per vedere se avevo lasciato i filtri in macchina».
«Che? Che filtri? Come sei sceso? E non mi hai detto un cazzo?»
«Ho visto che ti drogavi e non volevo intromettermi».
«Ma quindi non ti eri addentrato nel bosco?»
«No, sono appena tornato».
«Hai mangiato dei morti?»
«Come?»
«Lascia stare»
Restai inebetito con un sorrisino isterico stampato in volto. Le palle s’irrigidirono e mi girai verso il punto in cui avevo avuto l’esperienza extrasensoriale. Decisi di andarci piano con le canne.
Rientrammo in tenda e iniziammo a parlare di figa e delle grandi scopate che avevamo fatto nel corso degli anni. Quanto è bello non poter esser smentiti e soprattutto paragonarsi a crocchette per cagne affamate. Comunque la notte scivolava via tra una stronzata e l’altra e la tromba aveva reso le mie palpebre pesanti come la mazzetta di un muratore. Ero già in preda ad un viaggio onirico, di grandi scopate naturalmente, quando venni svegliato di soprassalto da strane voci. Mi misi a sedere col cuore che batteva forte e guardai il mio amico. Anche lui si era sveglio e faceva segno di tacere con l’indice appoggiato sulle labbra. Dei fari stavano illuminando la nostra tenda e alcune persone parlottavano. «Che sia la forestale?» feci.
«Shh…non penso....sarebbero già venuti ad avvisarci.»
«Che siano degli ubriachi?»
«Che fanno degli ubriachi in cima ad un cazzo di monte sperduto?»
«Che siano dei Pacciani e compagni di merende che vogliono vedere il nostro charlie?»
«Senti, io qui non ci sto. Vado fuori.»
«Ma dove diavolo vai? Aspetta!!!»
Il mio amico tirò fuori dallo zaino un coltello da 30 cm e lo impugnò come se dovesse bucare un gommone.
«Ma che cazzo è quell’arnese? Sei impazzito?»
«Non facciamoci prendere. Corri nel bosco. Ci ritroviamo domattina qui» Ed uscì dalla tenda.
«N’do cazzo vai Rambo!! Sussurrai ad alta voce. «Domattina? ma sei fuori? Ma questo è scemo».
Mi era salita una paura da lupi. Mi tornò alle narici l’odore fradicio cha avevo sentito nel bosco. Venni colto dal panico. Decisi di svegliare l’anziano col nipote.
«Signore! Nonno! Svegliatevi, ci sono delle persone!» vecchio stronzo, pensai, ma come fa a dormire con tutto sto casino? E’ deceduto? E quel povero nipote? Cristo di un Dio.
A che cazzo servono i vecchi se neanche si sacrificano nel momento del bisogno.
"Scese la notte e il cielo iniziò a brillare. C’era un silenzio surreale rotto dal passaggio di qualche auto in lontananza. Visto che il mio amico non toglieva le mani dal suo aggeggio, manco fosse una topa calda, decisi di farmi una canna."
«Vecchio!» urlai nuovamente. «Esci da quella cazzo di tenda! Le stelle, ste cazzo di stelle, mo’ te le fanno vedere sti qui! Uscite!» Si sentivano rami secchi scricchiolare tutt’attorno e il vento portava lugubri rumori.
Decisi che non aveva senso morire in una tenda e trovai il coraggio di uscire all’aperto. Appena mi misi in piedi mi accorsi che i fari erano stati spenti e il calpestio che prima udivo era cessato. Chiamai a squarciagola il mio amico. Il freddo spingeva la merda che mi usciva dal culo per la tensione. Scoreggiai come non avevo fatto prima in tenda per non asfissiare il compagno. Col senno di poi gli avrei dovuto cagare addosso. Un olezzo tremendo, più forte del precedente, si levò in aria e venne traghettato dal vento verso l’oscurità del bosco. Beccati questa, pensai.
Mentre prima le stelle illuminavano la radura, ora c’era solo del nero e, se non fossero state attaccate al corpo, avrei fatto fatica a trovarmi le mani.
Giuda! Sei un Giuda! Te e quella volta che ho deciso di seguirti quassù.
Mi balenò l’idea di salvare almeno il bambino nella tenda a fianco ma la mia dose di altruismo si dissolse in pochi secondi. Se viene su come il nonno meglio che resti là dov’è.
Era di nuovo sceso il silenzio ed il puzzo era scomparso. Non sapevo che fare. Avevo le gambe che tremavano e, sicuro, mi ero sgommato nelle mutande. Presi un bastone e non sapendo chi menare decisi di rientrare in tenda.
Il sonno mi sorprese mentre stringevo con forza il bastone pronto a schiantarlo sulla testa del primo che si fosse avvicinato, fosse il mio amico, il vecchio, o l’essere andato a male.
Mi svegliai sudato con una forte emicrania. Fuori era tornata la luce così uscii dalla tenda. Era ancora il vespro e una nebbiolina conferiva al luogo un aspetto spettrale. Mi stropicciai gli occhi brasati e gonfi e li riaprii.
Ebbi un sussulto e trattenni un grido.
C’era un uomo in maglietta, mutande e scarpe da ginnastica di fronte a me. Signore aiutami tu.
L’uomo mi salutò e si prese una gamba a mo’ di stretching. Poi partì di corsa verso di me. Il grido che prima avevo trattenuto esplose. L’uomo in mutande si spaventò e si fermò di colpo:
«Che cazzo gridi?»
«Ah, scusa» -‐ dissi prossimo ad un infarto.«ho avuto una nottata difficile».
Scosse la testa incazzato, disse qualcosa sottovoce e ripartì di corsa, cambiando direzione questa volta. Si diresse verso il bosco, e sparì nella fitta faggeta. Smontai la tenda con la velocità di chi se la sta facendo addosso, diedi un’ultima occhiata attorno e alla tenda dei due morituri e mi incamminai verso l’eremo di Camaldoli. Corsi quanto l’uomo in mutande perché coprii il tragitto in un baleno. Arrivai alla macchina. Di quel coglione dell’amico neanche l’ombra. Figuriamoci. Sarà stato ancora nel bosco ad accoltellare uomini in mutande, pensai. Per fortuna avevo deciso di prender su la mia macchina il giorno prima, per cui tirai fuori le chiavi. Mi venne in mente che l’amico aveva detto di esser tornato alla macchina per recuperare i filtri.
«Con quali chiavi?» Non aspettai un secondo di più. Quel malato mentale sarebbe tornato in groppa ad un cinghiale se non lo avessero arrestato prima. Feci retromarcia e partì sgommando. Non ho mai più sentito quell’amico e ringrazio mio nonno per avermi portato in una stalla.
di Evangelista